Rituali che curano, segni che parlano: Erica Gariboldi e la riconquista del senso attraverso il corpo
Nel tuo lavoro affondi le mani nel vivo del contemporaneo, tra medicalizzazione e isolamento digitale. C’è un’immagine — reale, simbolica o onirica — che senti come una sorta di ‘totem personale’ della tua ricerca?
E.G.: Effettivamente c’è un’immagine, prima onirica e poi simbolica, che prende forma contemporaneamente all’avviarsi della mia ricerca artistica intorno a tali tematiche e che è diventata pittorica in alcuni miei lavori più recenti, ed è quella del fagiolo. Fagiolo era una forma non del tutto definita, prima sognata e poi ritrovata in alcune tac cerebrali che confrontavano cervelli di pazienti affetti da un disturbo/disordine mentale e cervelli “sani” e fagiolo è stata la possibilità di dare forma al mio malessere prima che una diagnosi ne stabilisse l’etichetta medica; ma il fagiolo che ritorna immagine simbolica intende andare oltre la diagnosi individuale per raccontare la dimensione societaria – e, dunque, la responsabilità societaria – del malessere mentale contemporaneo, legato a doppio filo alla condizione di isolamento e ripiegamento nel sé che viviamo oggi e che tento di raccontare attraverso il contraltare della – morta e morente – ritualità collettiva. Il fagiolo non è “mio”, “tuo” o “suo”, non è di chi ne porta il peso più gravoso, è il fagiolo di tutti. Come scrive
B.C. Han: « Le sofferenze sono cifre di un codice: contengono la chiave per comprendere ogni società. Se le sofferenze vengono lasciate solo alla medicina, ci sfugge il loro carattere di segni. (…) La rivoluzione nasce dal dolore percepito insieme. »
Quale sentimento ti ha spinto a indagare il rituale come spazio per modalità alternative di conoscenza e che tipo di linguaggio può articolare il corpo, quando le parole falliscono, nella tua pratica artistica?
E.G.: Direi in primo luogo la necessità di condivisione di una fatica tenuta nascosta per molti anni, che ho voluto utilizzare come paradigma per esplorare la necessità generale di una connessione con l’Altro differente dalla “non-comunicazione” che sperimentiamo ogni giorno, un tipo di connessione che richiede tempo e pazienza, ritualità e ripetizione, fiducia nel segno e nel simbolo. Il corpo nel mio lavoro comunica attraverso il dolore, una percezione estremamente concreta che riconosciamo come universale – non solo umano – e che ci ricorda la libertà di essere corpo prima che merce.
In “Raving death” racconti la necessità di sperimentare una forma di violenza controllata – rituale – in risposta a una società potremmo dire priva di carattere proprio. Come immagini una forma di ritualità comunitaria che può rivendicare il senso aggregante nella società contemporanea?
E.G.: Lascio la risposta al mio prossimo corto 😉
Intervista a cura di Martina Ferrarini, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria