MYR: il viaggio sensibile di Chiara Francesca Rizzuti tra antropologia, fotografia e stati alterati

MYR: il viaggio sensibile di Chiara Francesca Rizzuti tra antropologia, fotografia e stati alterati

Chiara Francesca Rizzuti
Al festival INSIGHT presenti il progetto “MYR”, in cui fotografia e antropologia si intrecciano in un’indagine sullo stato alterato di coscienza e la relazione tra umano e non umano.
In “MYR” combini fotografia e antropologia. Come si alimentano reciprocamente questi due linguaggi nel tuo processo creativo?

C.F.R.:Nel mio percorso l’antropologia è arrivata dopo aver studiato per diversi anni il linguaggio fotografico e la ricerca visiva ma quando l’ho scoperta, l’ho amata al punto che gli strumenti che mi ha dato sono diventati parte integrante del mio lavoro. Già in qualche modo la fotografia mi aveva avvicinata all’altro e alle dinamiche di comprensione, cura e sospensione del giudizio ma con l’antropologia ho proprio trovato una modalità di poter ampliare la mia ricerca.

La disciplina antropologica è infatti una lente attraverso cui imparare a decostruire schemi appresi, che vanno dalla propria storia personale fino alle abitudini socialmente condivise, quindi per me è diventata una modalità per mettere in discussione anche il modo stesso di fare ricerca. Si pensa spesso al progetto concluso ma è fondamentale comprendere che posizione occupiamo nel mondo, come ci muoviamo all’interno di esso, chi beneficia di ciò che raccontiamo. Inoltre, mi ha permesso di mettere in discussione anche un codice visivo appreso.Credo che chiunque si occupi di fotografia e ricerca visiva beneficerebbe di questa disciplina perché permette di vedere quanto di ciò che produciamo sia condizionato da bias e riconfermino, anche inconsapevolmente, dinamiche che dovremmo imparare a scardinare. Di conseguenza oltre che al come fare ricerca, apprendendo strumenti e conoscenze nuove, è stato anche aprirmi a contenuti diversi. In un momento storico come questo, sento il bisogno, da essere umano, di lavorare a costruire un mondo equo; stiamo affrontando sfide storiche importanti, chiunque può fare la propria parte, anche piccola. E anche raccontare una storia può essere fonte di speranza e di energia nuova. La fotografia evoca, pone quesiti e ha quella capacità di aprire porte e scoprire mondi nuovi. Da autrice, sento di avere la responsabilità di contribuire al cambiamento e l’antropologia mi ha dato gli strumenti e la capacità di farlo nella giusta direzione.

Che tipo di approccio etnografico hai adottato per raccontare l’esperienza psichedelica in un contesto contemporaneo come quello olandese?

C.F.R.:Sul piano teorico, mi sono approcciata al tema studiandolo dal punto di vista dell’antropologia medica, che si occupa di analizzare come in diversi contesti viviamo il corpo, la morte, la malattia, la salute, per esempio.

Come strumenti etnografici ho attuato delle interviste semi strutturate, in primis a Eta, ma per la tesi ho conosciuto anche altre persone che lavorano con background e approcci differenti – dalla psicologia fino ad un approccio botanico con risvolti anche più underground e meno istituzionalizzati. Ho fatto ricerca sul campo analizzando molta della letteratura su forum e blog, ho approfondito la letteratura in merito, ho parlato con molte persone e alla fine anche avviato una comunità psichedelica a Bologna, dove vivo. Ho quindi seguito la strada dell’osservazione partecipante, con tutte le disamine antropologiche del caso ovviamente. Durante il primo supporto a Loes, ho redatto un report della permanenza a casa di Eta e trascritto il racconto del suoviaggio nonché del mio, che è stata la mia primissima esperienza psichedelica, documentata con una registrazione che ho poi trascritto. È stato quindi molto lavoro sul campo, possiamo dire sia su questo piano della realtà che su quello più propriamente psichedelico.

“MYR” sembra indagare anche un possibile futuro post-antropocentrico. Come immagini un rapporto armonico tra umani e forme di vita non umane?

C.F.R.:Sono molto felice di questa domanda perché la mia ricerca va esattamente in questa direzione.

Credo che la società neoliberista e capitalista, figlia di un colonialismo bianco mai realmente interrotto, ci abbia allontanato molto dalla realtà di ciò che siamo. Non è un mistero infatti che abbia piegato qualunque forma di esperienza ed esistenza al profitto di pochissimi, avviandoci verso un futuro che mette a rischio la vita sulla Terra per come la conosciamo. Moltissime tradizioni indigene sanno benissimo i danni che stiamo provocando, e hanno preservato conoscenze e strumenti che sono fondamentali per vivere in armonia con il pianeta, custodiscono un sapere che abbiamo deciso di dimenticare. Ripensare quindi un futuro altro in armonia con tutte le forme di vita sul pianeta significa per me rimettersi in ascolto, riconsiderare le priorità di un sistema sociale che ha dimenticato gli ultimi, significa partire dall’assunto che siamo noi stessi esseri umani siamo Natura. Significa ascoltare le popolazioni native, onorare il loro sapere e trarne insegnamento. Ma non come stiamo facendo, appropriandoci di pratiche che non ci appartengono in un processo di copia pedissequamente improprio – anche e soprattutto nel contesto psichedelico, mettendo a rischio quelle stesse popolazioni. Significa tornare a noi stessi, rimettere tutto in prospettiva. Perfino moltissimi studi scientifici stanno proprio andando in questa direzione, studiandole modalità che hanno piante e funghi di comunicare e vivere in cooperazione. Ripartire quindi dall’ascolto di sé, degli animali non umani, delle piante e dei funghi, imparare da altre forme di vita non umane, spostare l’asse del nostro centro da noi e dal profitto per comprendere che siamo tutte e tutti parte di un unico grande Universo. Che se ferisco te, ferisco me. Che tutto il Male che stiamo seminando nel mondo ci sta già incancrenendo dentro, letteralmente. Prima di fare ciò però credo sia doveroso rivedere tutti i processi storici che ci hanno portato fino a qui, chi non impara è destinato a ripetere. Se vogliamo un futuro splendente, dobbiamo fare i conti con la nostra Storia. E nonostante sia molto difficile in questo momento, voglio credere che un futuro nuovo sia possibile, forse non ne saremo testimoni ma forse vedremo l’alba di quel giorno e avremo contribuito a costruirlo, quel futuro.

Che risposte hai ricevuto da parte del pubblico su un tema così delicato come l’uso terapeutico delle sostanze psichedeliche?

C.F.R.: Viviamo un momento storico particolarmente florido per fortuna, c’è chi parlerebbe di Rinascimento Psichedelico (e chi anche già di tramonto) quindi lo stigma sulle sostanze è qualcosa che si sta piano piano scardinando facilmente. Perciò non ho dovuto affrontare troppi ostacoli. Se ne parla tanto, anche nei media mainstream quindi è in qualche modo nell’aria. Esistono delle complessità ovviamente in merito al tema e queste sostanze da sole non bastano, non sono una bacchetta magica per risolvere i problemi. Ma generalmente credo che le persone siano abbastanza stanche di un sistema che le spreme, credo abbiano bisogno di un po’ di magia, di sperare in qualcosa di altro e nuovo. Anche se la guerra alle droghe ha fatto danni enormi nei decenni scorsi, ho la percezione, o forse la speranza, che le persone abbiano proprio bisogno di aria nuova.

Come si è evoluta la tua visione del corpo e della mente durante la realizzazione di questo progetto?

C.F.R.: Questa ricerca è andata di pari passo con la mia maturazione come essere umano e come autrice, nonché in parallelo con il prendermi cura di una depressione che trascinavo da anni e che per molto mi ha abbastanza invalidato. Durante questo percorso quindi è stato meraviglioso e incredibilmente liberatorio decostruire tanto di ciò che apprendiamo. C’è stato un momento, mentre saliva l’effetto della psilocibina a casa di Eta, sentivo l’aria fresca di Settembre, mi godevo il cielo. Chiudevo gli occhi e sapevo e sentivo di esistere. Non come Chiara, come corpo così fatto, ma semplicemente di esistere, Essere a basta. Una piccola Morte dell’Ego. Riaprendo gli occhi, realizzavo che qui, ora, su questa Terra, sono Chiara, ho gli occhi verdi, i denti storti, scatto fotografie eccetera. È stato liberatorio in questi anni rendersi conto che c’è molto di più oltre al lavoro, le tasse da pagare, i valori di un sistema così rigido: c’è qualcosa di più grande, apparteniamo a qualcosa di più grande. E ricordarsi di essere della stessa materia delle Stelle, del cielo, degli alberi, di te, degli animali non umani che accarezziamo… È stato estremamente liberatorio e mi ha messo sulla strada per trovare me stessa e allinearmi con ciò che sono. Già sapevo che il corpo è il primo strumento che abbiamo per conoscere il mondo, che siamo macchine complesse, noi esseri umani, ma durante questo lavoro ho scoperto che siamo davvero l’Universo che si fa carne, siamo un “Oceano di Coscienza” incarnato. Ed è estremamente liberatorio, non ho altro termine, in una società che cerca di incastrarti entro griglie rigide. Non ho più paura della Morte, non ho più paura in generale, so che l’Universo stesso di prende cura di me.

Intervista a cura di Giada Budelli, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria



Drag View