Fuoco contro fuoco: il progetto fotografico di Alessandro Truffa tra scienza e mito
Con “Fuoco contro fuoco”, presentato a INSIGHT, esplori un rituale di guarigione popolare attraverso la fusione di memoria orale e immagine scientifica.
Cosa ti ha spinto a indagare su un rituale di guarigione popolare come quello del “fuoco contro fuoco”?
A.T.:Fuoco contro fuoco è la formula che una guaritrice del Piemonte utilizza oggi per spiegare ai pazienti la natura omeopatica del suo rituale terapeutico, concepito da lei come un dono da elargire in maniera gratuita a chi ne ha bisogno. Il rituale prevede l’utilizzo esclusivo di elementi naturali come il legno e la fiamma e di uno scopino di saggina che dopo essere stata passato sulla fiamma del camino viene sfregato sulla pelle affetta dal Fuoco di Sant’Antonio, da qui il nome del progetto e della formula. L’interesse per indagare questa pratica è nato dalla crescente risonanza che essa ha acquisito non solo nel mio paese, ma anche nel territorio della mia regione. Mi è capitato, infatti, in più di un’occasione, di incontrare persone che erano state guarite con questo rituale invece che con la medicina tradizionale. Si tratta, inoltre, di una di quelle tradizioni che appartengono ad un mondo ormai al tramonto e che oggi rischiano più che mai di scomparire. Mi è sembrato quindi urgente e importante indagarne le caratteristiche e cercare, per quanto possibile, di preservarne il ricordo e l’interesse.
Nel tuo lavoro, il racconto orale e l’immagine scientifica convivono: come hai bilanciato il rapporto tra narrazione e documentazione?
A.T.:Il progetto si compone di materiali concettualmente eterogenei, ma che tuttavia entrano misteriosamente in dialogo tra loro, grazie ad analogie formali e somiglianze visive. Mi riferisco in particolare alle immagini al microscopio delle cellule virali dell’Herpes Zoster (termine scientifico con cui si identifica il Fuoco di Sant’Antonio) e a quelle di elementi vegetali ed erborei. Le fotografie di documentazione sono volutamente ridotte: comprendono solo alcune immagini del luogo in cui la guaritrice opera e altre che ritraggono l’uso dello scopino di saggina sulla schiena di una donna durante lo svolgimento di rituale a cui ho avuto modo di assistere. Ho scelto, infatti, di raccontare questo rito mantenendomi ad una certa distanza da esso, con l’intento di preservarne l’aura di mistero e di magia che lo caratterizzano. La narrazione presentata nel libro cerca di elaborare connessioni e rimandi tra i vari materiali raccolti durante la mia ricerca per riflettere su come l’origine di questo rituale si confonda all’interno di più ambiti che sono sia legati alla tradizione contadina, alla conoscenza scientifica e alle pratiche religiose.
Qual è stato il momento più significativo o rivelatore durante la tua ricerca sul campo?
A.T.:Tendenzialmente reputo la mia pratica molto studiata e bilanciata, in questo lavoro, però, l’utilizzo delle tecniche di fotografia off-camera è stato funzionale per coinvolgere la guaritrice all’interno del progetto, facendo produrre direttamente a lei quelle immagini in grado di rendere visibili le segnature che produce sulla pelle dei suoi pazienti. Ho, quindi, chiesto alla guaritrice di intingere lo scopino nei chimici da stampa invece che sulla fiamma del camino e poi di passarlo sulla carta fotografica come se fosse pelle, per cercare di replicare la gestualità che produce sui corpi dei suoi pazienti. Chiaramente si tratta di processi in cui non si ha il pieno controllo sul risultato e per me è stato necessario accettare i risultati prodotti. Non sono, tuttavia, sicuro che si possa parlare davvero di ‘errori’ o di ‘imperfezioni’, in quanto essendo la guaritrice l’unica a detenere il sapere sulle segnature che pratica, gli esiti visivi, dal mio punto di vista, non potevano che essere validi e corretti.
Pensi che la fotografia possa ancora agire come forma di guarigione o di trasmissione di saperi antichi?
A.T.:Pur essendo consapevole che per molte persone la fotografia possa avere una funzione terapeutica, nella mia pratica non la considero come tale. La intendo piuttosto come un dispositivo di ricerca e ciò che mi affascina maggiormente della fotografia e delle immagini in generale è la possibilità di raccontare il mondo attraverso frammenti in grado di interagire e creare dialoghi su più livelli. A differenza della parola, le immagini producono suggestioni, aprono spazi interpretativi e suscitano domande e penso sia questo il loro potere principale, piuttosto che la trasmissione del sapere o della conoscenza in senso lato. Parlando poi con la guaritrice fu lei stessa a confidarmi di essersi dimenticata molti degli aspetti di questa tradizione che le erano stati tramandati da sua nonna, la sequenza narrativa del libro cerca quindi di andare nella direzione di disorientare il fruitore attraverso una serie cortocircuiti visivi tra elementi eterogenei.
Intervista a cura di Giada Budelli, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria