Tracce sensibili: l’expanded printmaking di Anna Berrino

Tracce sensibili: l’expanded printmaking di Anna Berrino

La tua ricerca artistica è fortemente radicata nel territorio e nelle pratiche di walking art. Potresti descrivere come l’esperienza fisica e sensoriale del paesaggio si traduce nelle tue opere di expanded printmaking?

A.B.: La mia ricerca artistica si sviluppa a partire da un’interazione profonda e fisica con il paesaggio, mediata attraverso pratiche di walking art. Camminare diventa un atto di ascolto, di esplorazione e di immersione sensoriale che mi permette di raccogliere tracce, suoni, materiali e memorie del territorio. Questi elementi si traducono nelle mie opere di expanded printmaking attraverso processi che ampliano i confini tradizionali della stampa: utilizzo matrici non convenzionali e spesso integro elementi performativi o installativi. L’esperienza del paesaggio non viene quindi solo rappresentata, ma impressa direttamente nel lavoro, rendendo ogni stampa una sorta di impronta, una mappa sensibile del luogo attraversato. La fisicità del cammino si riflette nei gesti, nei ritmi e nelle texture dell’opera finale, trasformando il paesaggio in linguaggio visivo e tattile.

Dopo aver studiato e lavorato in diversi contesti internazionali, ti sei formata artisticamente in Scozia. In che modo queste diverse esperienze culturali e formative hanno influenzato la tua visione artistica e la tua scelta di concentrarti sull’expanded printmaking?

A.B.: Il mio percorso in diversi contesti internazionali, e in particolare la formazione artistica in Scozia, ha avuto un impatto profondo sulla mia pratica. Lì ho trovato un ambiente aperto alla sperimentazione, dove la stampa non era vista come una disciplina chiusa, ma come un linguaggio fluido, capace di dialogare con la performance, l’installazione, il paesaggio. Questo approccio mi ha permesso di allontanarmi dai formati tradizionali per abbracciare l’expanded printmaking, inteso come pratica processuale e situata. Allo stesso tempo, il confronto con altre culture e sistemi educativi ha ampliato la mia percezione del fare artistico come strumento di relazione, di ascolto e di costruzione di senso nei luoghi. Ho imparato a vedere la stampa non solo come mezzo espressivo, ma come pratica di connessione tra corpo, territorio e memoria. Queste esperienze hanno dato forma a una visione artistica in cui il processo ha lo stesso valore dell’opera finita, e dove il camminare, il raccogliere, l’imprimere diventano gesti poetici e politici.

Il concetto di expanded printmaking è centrale nella tua pratica. Quali sono i confini tradizionali della stampa che cerchi di superare e quali nuove possibilità espressive esplori attraverso l’integrazione con altre discipline? 

A.B.: L’idea di expanded printmaking nasce, per me, dall’esigenza di ripensare il concetto di stampa non più come processo chiuso, ma come sistema aperto, situato e relazionale. Mi interessa superare i confini tradizionali legati alla bidimensionalità, alla riproducibilità e all’oggetto finito, per esplorare invece la stampa come pratica in cui convivono gesto, contingenza e memoria. In questo senso, mi riconosco in una linea di pensiero che vede la stampa come “dispositivo di pensiero visivo” (per dirla come Johanna Drucker), capace di generare non immagini, ma situazioni, interazioni e tracce di un processo.

L’integrazione con altre discipline — come la camminata, l’installazione, la performance o la raccolta di materiali nel paesaggio — mi permette di indagare la stampa come forma di attivazione spaziale e temporale. Il lavoro non nasce in studio, ma *nel* mondo, e si costruisce attraverso l’esperienza, l’incontro, lo spostamento. In questo approccio, l’opera diventa un frammento di un processo più ampio, una testimonianza materiale di un’interazione con un luogo, un tempo, un contesto. È una stampa che non cerca la ripetizione, ma la presenza.

In SELVATICA, esplori il legame tra rituale e mondo naturale, attingendo a esperienze antiche. Quali sono le “radici antichissime” che ti interessano particolarmente e come le interpreti attraverso le tue tecniche artistiche contemporanee?

A.B.: In SELVATICA, il mio interesse per le radici antichissime dei rituali nasce dalla convinzione che queste pratiche custodiscano un sapere profondo, oggi in gran parte dimenticato, ma ancora necessario. I rituali arcaici rappresentavano un modo per abitare la natura senza dominarla, per riconoscere i suoi ritmi, le sue forze, e per inscrivere la presenza umana all’interno di un ordine più ampio. Non si trattava solo di atti simbolici, ma di veri e propri dispositivi ecologici e culturali.

Pensatori come Tim Ingold hanno messo in luce come nelle culture tradizionali la relazione con il paesaggio non sia mai estrattiva, ma relazionale: “gli esseri umani non vivono nel mondo come corpi in uno spazio, ma con e attraverso il mondo, come partecipanti in un flusso di vita”. Anche Félix Guattari, nel suo concetto di “ecosofia”, richiama la necessità di ripensare il rapporto tra soggetto, ambiente e collettività, attraverso nuove pratiche estetiche e etiche.

Ritornare a queste radici rituali, anche attraverso l’arte, significa allora proporre una visione alternativa: non antropocentrica, ma partecipativa. Credo che il recupero di questi gesti — lenti, ripetuti, legati alla terra e al tempo — possa aiutarci a immaginare nuovi modi di coesistere con il vivente. In questo senso, il mio lavoro non è nostalgia, ma tentativo di riattivare un sapere che riguarda tutti e che oggi può indicarci nuove strade per abitare il mondo in modo più consapevole.

 

Intervista a cura di Laura Agostini, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria



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