Sospensioni e trasformazioni: il linguaggio visivo di Alice Muratore
La tua pratica artistica combina fotografia, videoarte, installazione e performance art. Come scegli di combinare questi diversi media per esplorare i temi esistenziali che ti interessano?
A.M.: Utilizzare un approccio transmediale nella mia pratica artistica diviene quasi una necessità espressiva poiché ogni medium possiede una sua specifica modalità di pensiero e tramite l’ibridazione di linguaggi differenti riesco ad esplorare la complessità delle tematiche affrontate. Credo che un approccio artistico poliedrico rifletta le svariate stratificazioni, contraddizioni e ambiguità della contemporaneità e la sua mancanza di univocità di senso e di significato. Rosalind Krauss definendo la condizione post mediale dell’arte riflette su come la scelta del medium sia un atto guidato dalle necessità concettuali dell’opera e su come i limiti tra i diversi media oggi siano sempre meno definiti. Spesso la mia ricerca ha inizio dal linguaggio fotografico e la sua contaminazione con altri media, come il video, la performance e l’installazione, si costruisce in base alle necessità del contenuto, consentendo l’emersione di significati differenti. In questo dialogo tra linguaggi si attivano nello spettatore esperienze riflessive non lineari che rispecchiano la stessa complessità dell’esistenza.
Temi come il dualismo tra vita e morte, la memoria e il legame con la natura sono centrali nella tua ricerca. Come si manifestano queste dicotomie e connessioni nel tuo linguaggio visivo?
A.M.: La vita e la morte sono tematiche centrali nella mia ricerca e strettamente connesse poiché solo uno sguardo consapevole sulla morte consente di cogliere il valore autentico della vita. Vladimir Jankélévitch nel libro La morte invita a riconoscere l’unicità fragile e semelfattiva dell’esistenza umana e da questa consapevolezza della finitudine si genera una possibilità autentica di cura e responsabilità verso ogni altra forma di vita. Nelle fotografie del progetto questa riflessione si traduce in immagini sospese in cui non è possibile distinguere nettamente tra vita e morte, tra vivente e non vivente, tra naturale e artificiale. La natura stessa del linguaggio fotografico, con la sua capacità di annullare le misure e alterare i piani, può generare una realtà visiva alternativa in cui ogni elemento può rimandare ad altro, sembrare ciò che non è. La connessione con l’elemento naturale emerge sia all’interno delle fotografie che nelle installazioni, nelle quali utilizzo spesso materiali organici come rami, cera, terra, rocce, che vengono manipolati e trasformati per evocare nuove forme e significati. La memoria viene esplorata all’interno del mio progetto nella sua costante tensione con l’oblio. Ad esempio, l’immagine della resina, secreta dagli alberi, che indurendosi nel tempo custodisce frammenti del passato imprigionando insetti e particelle, viene qui affiancata all’elemento della cera, evocando un tempo non lineare, ma fatto di sedimentazioni, di strati, di permanenze. La consapevolezza della vulnerabilità della memoria individuale apre a forme nuove di una memoria condivisa, fluida, trasformativa.
In “Giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco, la fototassi positiva delle falene diventa una potente metafora”. Cosa ti ha particolarmente colpito di questo fenomeno naturale e come lo hai trasposto concettualmente nella tua opera?
A.M.: La fototassi positiva è definibile come il movimento di un organismo determinato da una fonte di luce verso di essa. Le falene, attraverso questo impulso primordiale, seguono la luce lunare, ma a causa dell’inquinamento luminoso il loro movimento viene dirottato verso le luci artificiali, che finiscono per disorientarle e portarle alla morte. Di fronte a questa immagine dolorosa e tragicamente attuale nasce una riflessione sull’esistenza umana e sull’attitudine a voler superare i limiti terreni e confrontarsi con l’ignoto. Nella videoperformance Candescere (2024) il corpo e i suoi limiti materiali vengono esplorati in un itinerario sia fisico che interiore. In una parte installativa del progetto, l’utilizzo di rami ricoperti di cera che inglobano i corpi di insetti raccolti presso fonti luminose sono l’evocazione di un tempo fossilizzato tra ciò che è stato e ciò che resta. A tal proposito mi viene in mente il cortometraggio sperimentale Mothlight del 1963 di Stan Brakhage che utilizza ali di falena, petali di fiori e fili d’erba pressati in un nastro di pellicola da 16mm. Brakhage non riprende la luce comunemente con una macchina da presa, ma è la luce stessa che attraversa la materia morta, che diviene materia viva dell’immagine tramite la propria presenza materiale.
L’opera esplora l’esistenza nel suo ciclo di nascita, trasformazione e rinascita. Come intendi comunicare visivamente questo processo di consunzione che non è distruttiva ma trasformativa?
A.M.: Ogni fotografia del progetto incarna un atto trasformativo, parte di un processo metamorfico continuo, così come si presenta l’intera esistenza. Nel libro Metamorfosi Emanuele Coccia sostiene che vivere significhi attraversare una metamorfosi continua, mutare forma in continuazione. La metamorfosi non rappresenta un processo d’eccezione che riguarda solo determinate specie, ma la condizione ordinaria dell’essere vivente. Il mio lavoro si fonda sull’idea che la consunzione non sia un atto finale distruttivo, ma un passaggio. Alcune immagini del progetto sembrano ritrarre residui della consunzione, come frammenti di cera, cenere, tracce, ma in realtà raccontano l’inizio invisibile di qualcosa di nuovo. L’utilizzo del negativo fotografico diviene così una scelta simbolica. Il negativo è materia liminale in transito che rappresenta il momento in cui l’immagine esiste ma non è ancora visibile nella sua forma definitiva. La scelta di utilizzare immagini negative non convertite in positivo significa sospendere l’immagine in uno stato a metà tra presenza e assenza. In questa zona intermedia si manifesta la vera natura del cambiamento, non come perdita, ma come forma latente e potenziale in atto.
La luce gioca un ruolo cruciale nell’opera, essendo sia elemento di distruzione che di creazione. Come utilizzi la luce (o la sua assenza) nei tuoi diversi media per esplorare questa ambivalenza?
A.M.: Nella mia ricerca la luce diviene una presenza ambivalente, un simulacro, presentandosi non come una rivelazione netta di verità assoluta, ma come ambiguità che è al contempo apparizione e sparizione. Trovo risonante il lavoro di Claudio Parmiggiani, le sue Delocazioni non sono realizzate per addizione ma per sottrazione. Attraverso il fuoco e il fumo gli oggetti lasciano la propria impronta, un’ombra residua, un’assenza che diviene immagine. Nel mio lavoro, utilizzando immagini negative, il rapporto consueto tra luce e oscurità viene invertito poiché ciò che appare luminoso è in realtà una traccia d’ombra e, dunque, la fotografia stessa diviene più che altro assenza di luce che presenza. Questa ambiguità è centrale anche nella videoperformance Candescere (2024), dove la luce agisce come forza attrattiva e distruttiva. È agente di trasformazione, atto di passaggio, e nella fusione finale tra corpo e luce si manifesta una trascendenza. Nell’installazione Icore (2024), la luce è rappresentata da una lampadina collocata al centro che illumina il liquido corporeo delle falene idealmente fuso con il sangue umano, suggerendo un’identificazione tra specie e un’unità profonda del vivente. Anche qui la luce diviene però al contempo fonte di distruzione, richiamando l’inquinamento luminoso e la perdita di orientamento. La spirale di terra che circonda il sangue e l’emolinfa è un rimando al volo disorientato delle falene, ma anche al ciclo eterno di vita e morte, che riconduce al titolo stesso del progetto.
Il titolo stesso dell’opera è molto evocativo. Come il linguaggio contribuisce a definire e amplificare i concetti che esplori visivamente nelle tue opere?
A.M.: Il titolo del progetto è la traduzione italiana della frase latina palindroma In girum imus nocte et consumimur igni. La frase è un rimando al volo circolare delle falene attratte dalla luce, ma, utilizzando la prima persona plurale, acquisisce un significato universale e diventa così metafora condivisa attribuibile anche a noi esseri umani. È interessante come il titolo abbia una molteplicità di significati: può alludere, infatti, anche a una riflessione sulla condizione contemporanea, una critica all’ideologia del progresso cieco, all’iperproduzione, all’illuminazione costante che annulla l’oscurità e dunque anche la possibilità di una dimensione più contemplativa e riflessiva di lentezza e sogno. Inoltre, nel medioevo si credeva che questa frase, trascritta su una pergamena e poi bruciata, consentisse di trovare la formula della pietra filosofale. Emerge dunque anche un aspetto più alchemico ed esoterico, legato all’idea di trasmutazione. La componente testuale è fondamentale nella mia ricerca perché penso possa espandere il senso delle immagini, aprendo ulteriori strati di lettura e generando nuove connessioni. L’aspetto palindromo della frase si riflette nel progetto attraverso quel movimento ciclico tra la vita e la morte, la luce e l’oscurità. Le immagini, come il titolo, si articolano in una struttura che non ha né un inizio né una fine lineare, ma si costruisce per accostamenti, ripetizioni e rimandi.
Intervista a cura di Laura Agostini, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria