Luoghi che non mentono: Priscilla Tangari tra ricordi, riti e umanità
La tua arte gira intorno all’osservazione di persone, spazi e stili di vita. Se dovessi osservare te stessa e descriverti con un luogo o oggetto, quale sarebbe?
P.T.: Amo molto osservare le persone, i loro gesti, il modo in cui si muovono, i dettagli che indossano o che fanno parte di loro. Nascondono dei mondi che mi incuriosiscono. Una cosa che guardo subito in una persona è l’atteggiamento: come si pone con ciò che ha di fronte e con ciò che lo/a circonda. Siamo dei pianeti con intorno un microcosmo. E i luoghi intesi come spazi vissuti, sono parte integrante di questo microcosmo. Gli spazi privati rappresentano chi li abita, chi li vive. Sono un’estensione di ciò che ognuno porta dentro o di come vede il mondo. Non è un caso che mi occupi anche di fotografia di interni. È un modo per scoprire realtà diverse anche a 500 m dalla propria casa. E scoprire realtà diverse ci arricchisce.
Se fossi un luogo sarei sicuramente la cucina. La cucina di una casa.
Oltre al mio amore spassionato per il cibo, una cucina, non è solo un luogo dove cucinare. È molto di più. È un ambiente che si trasforma continuamente: raccoglie ricordi, segreti e profumi. Può diventare un salotto, un luogo dove fare festa o uno spazio da vivere in solitudine. In tutte le case dove ho vissuto mi sono sempre seduta sul piano della cucina, è un’abitudine che ho da quando sono bambina: mi sento raccolta e vicina alle persone con cui sto parlando o mi sento più vicina a me stessa, dove con una tazza in mano inizio a pensare o con un mestolo in mano invece smetto di pensare.
La mia vita gira costantemente intorno al cibo, perché i valori della mia famiglia si sono molto espressi e sviluppati intorno ad una tavolata imbandita…ovviamente in cucina. Era lo spazio in cui mia madre era costantemente presente, in cui lo erano i famigliari e gli amici. È un luogo che non può mentire; è un luogo di raccolta, che unisce e ti fa sentire in un posto sicuro.
“L’incontro”, trattoria simbolo del tuo legame famigliare, rimane un luogo ancora sospeso nel tempo, ma com’è cambiata la tua visione di questo ambiente rispetto a quando eri bambina?
P.T.:La visione di questo ambiente rispetto alla me di 20 anni fa è cambiata tantissimo. Per me era un posto normale, dove andare a mangiare, in cui ci si riuniva con la mia famiglia di mia madre…anche perché ci andavo solo con loro. Ho Sempre pensato fosse un posto molto semplice, non vedevo il potenziale che oggi vedo. Già ci orbitavano alcuni pianeti che in quel tempo notavo, ma più che altro perché me lo facevano notare le mie zie o mia madre.
La maturità, gli affetti che piano piano vengono a mancare e le abitudini che si perdono, quando si cresce ti fanno vedere le cose da un altro punto di vista e con una certa nostalgia. Un po’ come quando passi davanti alla scuola che hai frequentato da adolescente. Ci sono delle cose che ti mancano, soprattutto se queste “cose” rientravano nella quotidianità, erano dei “rituali”, delle abitudini che da adulto hanno un sapore diverso ma che ti identificano in qualche modo. Io sono una persona molto malinconica, molto legata ai ricordi e anche ad alcuni luoghi. Il fatto che L’Incontro sia rimasto tale per me è una certezza ed un punto fermo nell’avanzare della vita.
Prendendo come spunto la relazione d’amicizia tra Pasquina e Anna, cosa ti affascina di più di questi rituali quotidiani?
P.T.:Partendo dalla storia di Pasquina e Anna, ciò che più mi affascina è il decoro e il rispetto verso l’altro, verso sé stessi e verso un mondo e una cultura che ci avvicina all’altro ma con discrezione, mantenendoci sempre un passettino indietro, rimanendo accanto al prossimo senza prevaricarlo.
La semplicità e la dignità che appartengono a questi gesti rituali ci permettono di osservare e riflettere su come sia cambiato l’approccio nel mondo reale: al modo in cui viviamo, al modo in cui affrontiamo la vita e al modo di dare un senso, o trovarlo, a ciò che facciamo.
Quando realizzi degli scatti, cosa ti piace osservare per primo tra gli elementi che ti circondano e quindi su quale ricade subito il tuo occhio?
P.T.:Prima di scattare mi guardo intorno, cerco di capire la situazione e cosa mi circonda e poi parto di pancia, verso ciò su cui il mio sguardo cade. Normalmente o sono oggetti comuni che si trovano in un contesto banale, ma che per un motivo in quel momento hanno un significato importante, quasi dei totem o delle rappresentazioni della realtà o di ciò che voglio comunicare; oppure quando osservo le persone mi soffermo sulle loro scarpe, perché dicono tanto di una persona, sulle loro mani e su parti del loro corpo. Come dicevo prima l’atteggiamento, quindi come si muovono, le posizioni che assumono e anche come si comportano di fronte alla macchina fotografica. Normalmente parlo con loro, perché fa parte del processo, è un anello importante di tutta la fase di scatto ed è qualcosa che fa parte di me. Altre volte non parlo, ma vado a “caccia” di quello che mi ha colpito nel mio immaginario e in un secondo momento vedere la reazione che le persone hanno si colloca come anello in un altro punto della storia.
“L’incontro” nasce dalle tue emozioni e dal tuo senso di appartenenza al luogo. Essendo il tuo lavoro di esplorazione alla trattoria non ancora terminato, cosa pensi di ritrovare in futuro? Cosa immagini?
P.T.:In realtà non so cosa aspettarmi da questo luogo… sicuramente altre storie ed altre abitudini, che magari mi aiutino a impreziosire la realtà con una poesia che rimane un po’ sospesa, con delle note un po’ stonate ma che funzionano benissimo in quel contesto.
Ciò che è significativo di questo luogo è la possibilità di scegliere se rimanere soli oppure passare il tempo con qualcuno che incontri li. Sei libero di fare spazio sul tuo pianeta o lasciare che gli altri ci orbitino semplicemente. Mi aspetto mondi che magari mi insegnino a capire anche il mio di mondo e che stare soli con stessi è bellissimo ma che la solitudine non è qualcosa che ci deve appartenere sempre e condividere è la massima espressione di pietà umana.
Intervista a cura di Martina Ferrarini, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria