Oltre l’apparenza: il dialogo critico ed emotivo nell’arte di Sara Lepore
La tua ricerca esplora temi legati all’identità e all’opacità attraverso fotografia, video, performance e strategie transmediali. Come scegli il medium più appropriato per affrontare un determinato concetto e come dialogano tra loro i diversi linguaggi nel tuo lavoro?
S.L.: Ogni storia ha il suo linguaggio più adatto, e per me scegliere il medium significa prima di tutto ascoltare ciò che il progetto richiede. Nel caso di Ingrediente pentru un tort de miere cu dragoste, mi sono interrogata su come poter rendere visibile il concetto di lingua attraverso la fotografia. È così che ho deciso di ricreare un oggetto – la tovaglia – capace di evocare un luogo simbolico, il tavolo, attraverso cui ricreare il dialogo di cui sono stata privata. Allo stesso tempo, nella video installazione Esercizio n.1 – come cucinare una torta di miele, ho trovato nel video il mezzo per costruire una traduzione fittizia, che mi permettesse di riflettere sull’incomunicabilità, sugli errori e sui cortocircuiti della trasmissione linguistica. I diversi linguaggi dialogano tra loro per stratificare i livelli di senso e creare uno spazio aperto all’ambiguità, al malinteso, alla scoperta.
L’opacità è uno strumento fondamentale nella tua esplorazione di ciò che si svela e ciò che si nasconde. Potresti spiegare come utilizzi questo concetto visivamente e concettualmente nelle tue opere?
S.L.: L’opacità, per me, non è un ostacolo alla comprensione, ma un modo per suggerire che non tutto deve essere immediatamente decifrabile. È uno spazio di possibilità. Visivamente e concettualmente, gioco con l’opacità per lasciare emergere i significati che si nascondono dietro ai gesti quotidiani, agli oggetti comuni, alle relazioni familiari.
L’opacità diventa così un modo per proteggere, per preservare la complessità delle identità, ma anche per creare una soglia: un invito a guardare più a lungo, a leggere più in profondità, ad accettare che qualcosa resti in traduzione, o persino intraducibile.
La componente sperimentale è centrale nella tua pratica e mira a coinvolgere lo spettatore in un dialogo critico ed emotivo. Quali sono le tue strategie per attivare questa interazione e quali tipi di reazioni speri di suscitare nel pubblico?
S.L.: Non si può mai controllare davvero ciò che il pubblico coglierà da un’opera, ma si può provare a indirizzare lo sguardo, a costruire dei varchi, delle domande aperte. Quello che mi interessa è proprio questo scambio: le interpretazioni del pubblico diventano parte del lavoro, lo fanno evolvere, mutare, aprirsi a possibilità che non avevo previsto. La componente sperimentale è centrale nella mia pratica: mi piace indagare i limiti e le possibilità del mezzo fotografico, giocare con la sua materialità, con la sua relazione con altri linguaggi, spingere il medium fino al punto in cui diventa apparentemente qualcosa d’altro.
Per me è fondamentale evitare ogni forma di esotismo: anche quando lavoro su contesti linguistici o culturali che mi appartengono o meno, cerco sempre di farlo da una posizione di consapevolezza e ascolto, lasciando spazio all’ambiguità senza mai trasformarla in decorazione esotica, senza ricerca. L’interazione con il pubblico è così una componente viva, affettiva e politica del mio processo.
Consideri il rapporto tra contenuto e contenitore come parte essenziale del tuo processo creativo e concettuale. Potresti fare un esempio di come questa relazione si manifesta in una tua opera specifica?
S.L.: Assolutamente, credo che il rapporto tra contenuto e contenitore sia una delle cose che più mi affascina e mi stimola a sperimentare. Un esempio chiaro è il progetto Ingrediente pentru un tort de miere cu dragoste, dove il contenitore – una tovaglia di plastica – assume un ruolo centrale. Non è solo un oggetto visivo, ma un dispositivo concettuale: la tovaglia diventa luogo, si trasforma in un tavolo simbolico attorno al quale può riemergere il contenuto nascosto, ovvero la lingua, il linguaggio, la memoria non trasmessa.
La tovaglia, quindi, non è semplicemente un supporto: è ciò che rende possibile l’attivazione del contenuto. Se le fotografie fossero semplicemente appese a una parete, perderebbero completamente la loro forza, il progetto non si attiverebbe. È proprio nella relazione tra ciò che contiene e ciò che è contenuto che nasce il senso: la forma diventa parte del discorso, ne è la condizione stessa.
Ma anche la video installazione in mostra è stata fondamentale. Volevo mettere il pubblico nella mia stessa posizione di straniamento e incomprensione e mi sono chiesta: come posso farlo? Ho scelto di costruire un tutorial su come cucinare la torta, ma basato su una traduzione fittizia. Attraverso questo espediente, il pubblico crede di capire ciò che viene detto, ma in realtà solo chi accede alla vera traduzione può cogliere il vero contenuto.
Nel video, mia madre non parla affatto della ricetta: racconta dei casi di razzismo subiti, della dittatura di Ceaușescu, di cosa significhi essere una donna migrante, e in particolare una donna migrante dell’Est Europa. Questo scarto tra ciò che si vede, ciò che si legge e ciò che si sente è per me uno strumento potentissimo per riflettere sull’opacità, sul linguaggio, e su come i contenitori narrativi – una tovaglia, un tutorial, un sottotitolo – possano nascondere e al contempo rilevare e attivare.