La fotografia come diario fluido e rituale di liberazione per Sara Rinaldi
Come nascono i tuoi progetti fotografici, qual è il processo e le tue fonti di ispirazione?
S.R.: Tendo molto alla nostalgia, faccio fatica a tagliare, a non voltarmi indietro. Quando posso scelgo sempre il fluido, l’aereo, il reversibile e la fotografia è stata fin da subito modo per fregare la morte, per fermare il tempo e non rimanere incastrata in una forma sola. Per tanti anni è stata diario libero, poi piano piano è diventata anche molto altro.
In genere parto dalle mie ossessioni, dalle robe che mi ipnotizzano e mi infestano il cervello, che siano altre immagini, testi, corpi, sogni, deliri, dinamiche interpersonali. Spesso ho in testa una frase ma mi lascio contaminare da tutto e seguo quello che è più urgente.
Un lavoro importante in questo senso è stato il progetto fotografico su mio padre, nato nel 2018 all’apice di deliri famigliari. Partendo da una totale mancanza di ricordi della mia infanzia e dell’adolescenza e da distanze che sembravano irreparabili, ho iniziato a cercare mio padre senza mai averlo perso, avendolo costantemente davanti la faccia. Dialogando con il suo archivio fotografico, quello che ne è venuto fuori è stato, credo, un sussidiario di somiglianze e fili rossi ma più di tutto ne è uscito un piccolo rituale psicomagico, un canale di guarigione. È stata la prima volta in cui ho sperimentato in modo così alto la capacità del mezzo fotografico di curare, di tornare indietro nel tempo, creare verità, realtà, ricordi e legami nuovi e di suscitare lo stesso incanto che ti lascia l’illusione di un mago.
Essendo il tuo progetto colmo di emozioni, quanto spazio lasci all’improvvisazione durante il processo di creazione?
S.R.: Molto. A volte inizio con delle suggestioni, altre con delle immagini molto precise ma alla fine tutto muta in base al dialogo che si andrà a instaurare tra me e le persone, gli oggetti e gli ecosistemi con cui andrò a interagire. Un relazionarsi che è anche gioco ed è imprevedibile, una fonte di continue variazioni di rotta.
Che tipo di dialogo cerchi di instaurare tra lo spettatore e le tue immagini?
S.R.: Mi piace che si mantenga una sorta di ambiguità di fondo, che non tutto venga rivelato. Vorrei che le mie immagini fossero prima di tutto domande (e in questo a volte mi aiuto con le parole), puntini da cui partire con cui creare nuovi incastri tra i miei immaginari, reali e onirici, e quelli di coloro che si rapportano con le mie foto. In questo senso Instagram è d’aiuto nel gioco dell’incastro, con tutti i suoi limiti ci offre comunque infinite possibilità diaristiche tra intrecci e rimescolamenti di editing e narrazioni.
Pensi che la conclusione della serie di cui fa parte “Letters i never sent” possa segnare un distacco dagli stati emotivi che l’hanno originato, aprendo una nuova fase personale e creativa, o credi che questi continueranno a rimanere parte integrante della tua ricerca? Secondo te come affronterai la conclusione del progetto?
S.R.: Naturalmente piano piano arriverò a un apice di questo arco creativo e personale, ho cercato di mettere luce su stati emotivi e psicopatologie che in qualche modo faranno sempre parte di me, ma rimanere attaccati non stop a tutta questa intensità è complesso e se non si mettono degli argini il rischio è di bruciare tutto. Spero che ci sarà una sorta di rilascio, che riuscirò a mettere un punto finale a questa serie al momento giusto. Più avanti vorrei dedicarmi a progetti che escono dal mio vissuto, per quanto possibile.
Intervista a cura di Martina Ferrarini, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria