Giulia Madiai tra sospensione e mistero, dove il Male si insinua nel dubbio
Il lavoro che esponi a INSIGHT Foto Festival 2025, Road to Black, gioca con la percezione, la paura dell’ignoto e il sospetto. Hai mai avuto un momento in cui ti sei trovata a dubitare di qualcosa di assolutamente reale, solo perché sembrava troppo “ben costruito”?
G.M.: Rispondendo d’impulso e scrivendo di getto, la prima risposta che mi viene da dare a questa domanda, è che, quando mi sono ritrovata a dubitare di qualcosa di assolutamente reale, il dubbio è sempre stato rivolto alla mia mente e ai pensieri formulati da me stessa, ragionamenti nati e costruiti dal mio cervello, magari assolutamente veritieri, ma che mi ritrovavo a soppesare e passare al microscopio per mille e mille ore.
Uscendo fuori dal mio personale, posso dire che durante le ricerche fatte per Road to Black, mi sono ritrovata spesso a domandarmi chi avesse ragione e chi torto.
Come vivi il confine tra reale e fiction? Pensi che oggi ci sia ancora spazio per il dubbio, oppure vogliamo solo certezze anche quando sono false? Se potessi, come combatteresti la realtà plasmata dalla nostra mente descritta in Road to black attraverso il Satanic Panic?
G.M.: Anche quando le certezze sembrano la soluzione più veloce, facile e confortevole, credo che l’unico modo per combattere l’eventuale storpiatura della realtà sia quello di porsi continuamente delle domande, di dubitare e spostarsi al centro del corto circuito così da riuscire eventualmente ad interromperlo.
Hai mai percepito il senso di ignoto generato dal legame tra uomo e male nel tuo percorso professionale, magari mentre stavi lavorando a un’opera non legata al tema del rituale? Se si, come ti ha fatto sentire?
G.M.: Non saprei bene perché, ma sono sempre attratta dal lato oscuro delle cose, mi interessano i sentimenti contrastanti, i tentennamenti, le esitazioni e la parte dei volti non esposti alla luce, forse per cercare di combattere nemici fisici e immaginari, forse per cercare di riordinare il senso di ignoto che spesso provo nella pancia, ma si, ricerco sempre, fotograficamente, ciò che non è limpido e si va a mescolare con gli aspetti più neri del nostro pensare e agire.
Nel tuo lavoro sembri indagare il Male più che rappresentarlo. Se potessi fotografarlo senza mostrarlo, come faresti? Che tipo di immagine sarebbe?
G.M.: Non credo che vorrei mai mostrarlo in maniera palese, non sono troppo interessata al fornire delle risposte o rappresentazioni descrittive e didascaliche, al contrario fotograficamente mi interessa sempre ciò che non si mostra, ciò che rimane nascosto dietro le pieghe delle tende, o accade subito prima del gesto fatidico. Sono attirata dal punto di domanda, dalla sospensione, da quel senso di incertezza e dal dubbio che si incastra fra i pensieri e le parole non dette, per esempio anche delle semplici labbra increspate mentre raccontano un segreto a un secondo orecchio attento possono parlare del male.
Intervista a cura di Martina Ferrarini, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria