Gabriele Barbagallo: esplorare l’ambiguo confine tra reale e digitale
La tua formazione in fotografia all’Accademia di Brera si unisce a una precoce esplorazione del software 3D. Come si fondono questi due mondi nel tuo processo creativo e quali nuove possibilità espressive ti offre questa ibridazione di reale e digitale?
G.B.: Il punto di partenza dell’ibridazione tra reale e digitale nel mio lavoro nasce da una riflessione sul contemporaneo: oggi è sempre più difficile distinguere ciò che è reale da ciò che è iperreale, o da un suo simulacro. Studiando la storia della fotografia, ho compreso come ogni immagine fotografica, anche la più documentaria, contenga una componente di finzione. Da qui, nei miei progetti, ho deciso di superare la domanda “è reale o no?”, perché credo che questa distinzione sia ormai obsoleta. Attraverso l’uso combinato di immagini “reali” e altre “finte”, o meglio, iperreali, cerco di creare una zona ambigua in cui i due mondi si fondono, rendendo impossibile distinguere nettamente l’uno dall’altro. Questo cortocircuito percettivo porta a interrogarsi non tanto sull’origine dell’immagine, ma sul suo valore: l’immagine o l’opera “vera” ha più valore? E soprattutto, ha ancora senso cercare la “verità” in un’immagine? L’ibridazione tra fotografia e 3D mi consente quindi di esplorare nuove possibilità espressive, in cui il reale e il digitale non si oppongono, ma si potenziano a vicenda.
La piattaforma Alt_ra si concentra sulla creazione di opere in Realtà Aumentata site-specific. Quali sono le sfide e le opportunità uniche che presenta lavorare con uno spazio espositivo “aumentato” rispetto a uno spazio fisico tradizionale?
G.B.: Alt_Ra nasce da un’urgenza: quella di creare uno spazio che non esistesse già. Un luogo espositivo che non fosse vincolato da dinamiche di accesso, concessioni o logiche curatoriali tradizionali. In un contesto in cui per i giovani artisti è sempre più complesso trovare possibilità concrete di esposizione, la realtà aumentata ci ha permesso di scavalcare il vincolo architettonico per costruire uno spazio altro, autonomo, decentralizzato. Un ambiente che esiste solo se qualcuno lo guarda, ma che può esistere ovunque. La sua forza è proprio questa dislocazione: la possibilità di abitare lo spazio pubblico in modo non invasivo ma radicale, inserendo opere invisibili eppure presenti, capaci di trasformare la percezione del luogo e del tempo. In Alt_Ra non ci interessa riprodurre la galleria in digitale, ma creare condizioni alternative per l’esperienza espositiva, dove l’opera si attiva solo nell’incontro con lo spettatore e con il contesto specifico. Le sfide, inevitabilmente, sono molteplici. È davvero il peso fisico di un’opera a determinarne il valore, o possiamo attribuire la stessa intensità a un’opera composta da soli dati, immateriale eppure presente? Come si costruisce un’immagine che non ha fisicità ma ha presenza? Altre sono tecniche, limiti di peso, compatibilità, instabilità del segnale, ma diventano parte del processo. Non si tratta di risolverli, ma di assorbirli nel pensiero dell’opera. Nei nostri gruppi di lavoro, affrontiamo collettivamente queste tensioni, cercando non di adattare l’opera al mezzo, ma di far sì che il mezzo entri nella poetica dell’opera, fino a renderla inseparabile dal suo dispositivo.
Hai lanciato Alt_ra nel 2024. Quali sono le tue ambizioni per questa piattaforma e come immagini che possa evolvere il rapporto tra artisti, opere e pubblico nel contesto della Realtà Aumentata?
G.B.: Le mie ambizioni per Alt_Ra non riguardano semplicemente la diffusione della realtà aumentata, una tecnologia che esiste da anni, ma la costruzione di un contesto in cui gli artisti possano lavorare insieme, in modo orizzontale, senza rinunciare alla propria voce individuale. Quello che mi interessa non è l’innovazione tecnica in sé, ma il potenziale relazionale e collettivo che può scaturire da un mezzo ancora poco abitato dal mondo dell’arte indipendente. Alt_Ra nasce come spazio di incontro: una piattaforma in cui la creazione non è un atto solitario ma condiviso, e dove il confronto tra artisti diventa parte integrante dell’opera. In un sistema culturale che spesso premia la competizione, quello che cerchiamo di costruire è una modalità alternativa, in cui il valore non si misura con parametri esterni, ma nel processo stesso di fare arte insieme. È per questo che ho scelto di realizzare le interviste agli artisti non in ambienti formali, ma nelle loro case, davanti a una merenda. Perché credo che le idee nascano nella prossimità, nell’intimità dei gesti semplici, e che il confronto vero richieda tempo, cura e uno spazio umano prima ancora che professionale. Immagino per Alt_Ra un’evoluzione in cui il rapporto tra artista, opera e pubblico diventi sempre più naturale e spontaneo. La realtà aumentata, in questo contesto, non è solo una tecnologia da utilizzare, ma un modo diverso di guardare, di abitare i luoghi, di vivere le opere in un altro modo. Vorrei che Alt_Ra fosse questo: non un contenitore di opere digitali, ma un laboratorio vivo in cui pensare e sperimentare nuove forme di presenza, e di sguardo.
Parlando del progetto che esponi a INSIGHT, potresti parlarci del processo creativo che ti ha portato a realizzare la serie Fantôme, dalle prime intuizioni concettuali alla scelta dei media e alla codifica dei messaggi?
G.B.: Fantômes nasce dal desiderio di creare opere che fossero quasi degli spazi sospesi nel tempo, luoghi dell’inconscio in cui l’unica forma di comunicazione si rivela attraverso la luce. Questo tema dello svelamento ritorna spesso nella mia pratica: sento il bisogno che qualcosa emerga lentamente, che si manifesti, che sia un messaggio in codice Morse o l’attivazione di un video che rende visibili le immagini. Gli spazi di Fantômes sono molto diversi tra loro, a volte persino in conflitto, ma li considero tutti come frammenti del mio inconscio, come porte che si aprono una dopo l’altra in un rituale continuo di luce e oscurità.
Quali sono le tue speranze o aspettative riguardo a come il pubblico interagisce con “Fantôme” e quali riflessioni vorresti suscitare negli spettatori?
G.B.: Fantômes è stato creato con l’intento di non farsi notare immediatamente. Spesso, quando un’immagine è esposta, magari anche su larga scala, diventa così visibile da passare inosservata agli occhi del pubblico. Diventa talmente visibile da essere, paradossalmente, invisibile. In Fantômes, il video è inizialmente invisibile, ma diventa più visibile proprio per il fatto che è l’osservatore a dover scegliere di attivarlo. Il punto centrale dell’opera è proprio questo: rendere l’immagine fruibile solo se c’è una reale intenzione di interazione. Ciò che vorrei suscitare negli spettatori è un sentimento di sospensione. I video non hanno un inizio o una fine definiti, e possono essere visti per 5 secondi o 2 minuti, lasciando a chi osserva la libertà di decidere quanto tempo dedicare all’opera. Questo approccio invita a un’esperienza fluida, dove la durata e l’interazione sono determinate dal pubblico.
Ci sono artisti o correnti artistiche che hanno influenzato il tuo lavoro in questa serie?
G.B.: Sì, sicuramente Frederick Heyman, con le sue video-installazioni, mi ha ispirato con il suo stile post-umano. Arca, con la sua sperimentazione sonora e visiva, ha influenzato l’idea di fusione tra il digitale e il corpo, cercando un’esperienza sensoriale che trascende il confine tra i due. Rosalía, con la sua abilità nel mescolare tradizione e avanguardia, è stata una grande fonte di ispirazione per me. Come lei, che fonde il passato e il futuro nella sua musica, anch’io cerco di unire le due dimensioni del mio essere: quella primordiale e atavica legata al mio essere siciliano e quella iperreale e postumana che caratterizza la mia esperienza a Milano.
Quali sono i prossimi sviluppi o progetti futuri che si ricollegano o si discostano dai temi esplorati in “Fantôme”?
G.B.: I miei progetti futuri mirano a portare avanti la mia ricerca sull’ibridazione tra reale e virtuale, tra corpo fisico e simulacro digitale, esplorando nuovi linguaggi e modalità espressive capaci di approfondire questa tensione, anche attraverso un dialogo più consapevole con la finzione. Intendo inoltre continuare a sviluppare Alt_ra e le pratiche collettive che ne derivano.
Intervista a cura di Laura Agostini, stagista Scienze della Comunicazione, Università degli studi dell’Insubria